venerdì 2 maggio 2014

Riflessioni Torneo di Vienna

Può tradire il meteo, può tradire un tiro, possono tradire le linee di fondo campo, può tradire il tifo, la mensa, la metropolitana, un tram, la cosa che non tradisce mai è la squadra. La squadra si sostiene, si autoalimenta, si modifica, si espande o si contrae, ma non tradisce, e tutto questo lo fa se ha un contesto dove riesce ad esercitare al meglio il suo essere risorsa. Il contesto di un grande torneo, all’estero, dove i ragazzi sono soli con la loro squadra è una palestra d’eccellenza agli esercizi della squadra. Un momento educativo particolarmente forte, intenso, dove i ragazzi vivono e condividono con i compagni di squadra tutti i momenti e tutti gli stimoli di una giornata. Un luogo e un tempo dove le situazioni hanno il tempo di nascere, di essere gestite e di essere risolte, dove non c’è tempo per portare avanti rancori o congetturare, dove la bellezza del contesto e la “fame” di esperienza stimolano nei ragazzi l’esternazione di tutti i mezzi che hanno a disposizione per affrontare e risolvere le situazioni. A questo si unisce l’assenza delle normali strutture di tutela, di sicurezza, la famiglia, gli amici più stretti, non ci sono mediazioni o giustificazioni, non si può seguire un alibi, si è “costretti” ad affrontare qualsiasi cosa. E non c’è nulla di più formativo che l’esperienza diretta, la sperimentazione che oltre a fornire risultati in termini di conoscenza risponde anche al bisogno adolescenziale. In un contesto di torneo i ragazzi sperimentano, sperimentano se stessi e sperimentano gli altri, e si sperimentano con gli altri. Indagano le proprie emozioni, le proprie reazioni, i propri limiti. Prendono coscienza di quello che possono e non possono fare, ed è il gruppo, la squadra appunto, a fare da termometro, a limare le esuberanze e a stimolare le lacune. L’adulto vigila, stimola, crea e costruisce i contesti, sono i ragazzi però a viverli. Non propone situazione suggerendo risultati, non offre soluzione ai problemi e ai disagi, ma stimola costantemente il ragazzo ad attingere alle proprie risorse e a quelle del gruppo nella formulazione di soluzioni, non fornisce espedienti o rimedi, ma strumenti. È il processo di eduzione di mezzi e di creazione di strumenti che forniscono al ragazzo “esperienza” per crescere. I ragazzi non hanno bisogno di scappatoie o facili risultati, ma di sostegno nel percorso per ottenerli, esperienza nel raggiungerli. In un contesto di essenzialità, dove le comodità sono presenti, però ridotte all’osso, dove tutto quello che serve c’è, è l’ “in più” che manca, i ragazzi vivono e riscoprono la semplicità dei rapporti umani, della relazione. Tutto è, diventa e si riconduce alla relazione. Dal risveglio vicino ad un compagno di squadra, al pranzo in fila con altri mille ragazzi di mille nazionalità, alla protesta con l’arbitro, all’approccio con la squadra femminile, tutto è relazione, relazione cercata, voluta o dovuta, diventa però un esercizio di identità fortissimo, perché non esiste mediazione comunicativa, c’è solo la propria faccia e la propria voce, e dove questo non è sufficiente arriva la squadra a sostenere. Identità personale e identità di squadra, spirito di corpo. Che si allarga, e porta i ragazzi a riconoscersi non solo nella società di appartenenza, ma anche nel macro gruppo della corriera, nel grande gruppo di quelli che dormono nella stessa scuola, nel super gruppo di tutti gli Italiani presenti al torneo, nel popolo del torneo stesso. Senza lo spettro del campionato, dell’identità societaria, della rivalità campanilistica, tutti ragazzi, tutti amici. Il risultato più grande è vedere squadre che si tifano a vicenda, dinamiche di gruppo che si allargano, indipendenze che crescono, identità che si consolidano, in un teatro incredibile dove va in scena l’adolescenza tutta.
Paolo Bergamasco